di Raffaele Di Paolo
Questa intervista al Prof. Franco Basaglia è inedita ed è stata rilasciata a Raffaele Di Paolo, durante l’estate del 1976 a Trieste, nell’ospedale psichiatrico provinciale che il Prof. Basaglia dirigeva dal 1972. Uno straordinario documento nient’affatto appesantito dalla polvere del tempo.
Professore , cos’è la follia?
Il problema della follia è complesso perché può facilmente cadere nella trappola della filosofia. Lei pone il problema del rapporto fra ragione e sragione, rapporto che diventa conflitto quando sia la ragione che la sragione vengono istituzionalizzate. Che senso ha parlare di ragione o sragione allo stato nascente?
Si può invece dire che la ragione è, per esempio, la ragione di chi ha la forza e la sragione e di chi non ce l’ha: per Johnson è ovvia una cosa, per Amin è ovvia un’altra, ne consegue che questi è pazzo e quello è saggio.
Gli psichiatri hanno una definizione tecnica per spiegare la follia, ma io non sono d’accordo con loro.
La follia chiama in causa la norma. La norma è l’unico modo di classificare l’uomo: i comportamenti che rientrano in essa sono ritenuti buoni e accettati da tutti; gli altri no, gli altri sono anormali, cioè folli.
Per capire meglio queste cose, bisogna risalire alla naturalità del fenomeno. Una cosa che è naturale la si può rendere innaturale, proprio come capita alla follia.
Così ragione e sragione, che sono fenomeni naturali, vengono manipolati diventando salute e malattia mentale, a seconda di quello che è la norma e l’ovvietà in un determinato contesto. Noi siamo addestrati in maniera che il nostro modo di ragionare sia sempre acritico, per cui una cosa è o non è, e una persona è matta o sana, brutta o bella, cattiva o buona.
Questi valori sono veri in quanto si riferiscono a categorie ormai codificate e funzionali all’organizzazione sociale di cui facciamo parte.
Se dobbiamo evitare di correre il rischio di fare filosofia, non possiamo negare l’evidenza. La follia esiste, eccome …
… esiste la sragione, ma esiste come la maniera in cui essa viene razionalizzata. La stessa cosa si può dire della ragione e, quindi, quello che è ovvio per lei, non lo è per me, e così via.
Esiste la follia come una delle molteplici possibilità umane. Dobbiamo pertanto prenderla come un fatto reale, come un problema della contraddizione in cui è l’uomo fra ragione e sragione. Ma la contraddizione va vissuta e non superata nella ideologia: bisogna cioè cercare di non fare della contraddizione una situazione di falsa coscienza e derivarne l’ideologia scientifica e la conseguente necessità che i manicomi esistano e siano come sono.
Esiste, ripeto, la follia, ma io sono contro la razionalizzazione della follia.
Le persone che sragionano esprimono un tipo di sofferenza che deve trovare l’appoggio e l’aiuto di quanti possono farsi carico di certe situazioni.
E’ allora un problema di organizzazione? E, se lo è, come crede che si debba organizzare il servizio?
Bisogna vedere qual è l’organizzazione che prende in carico la follia.
Essendo infatti la follia un’esperienza dell’uomo, essa va vissuta, non eliminata.
Come ogni malattia la follia è una situazione reale, contraddittoria e drammatica, non è mica un’astrazione.
Ma la malattia viene sempre esclusa come qualcosa che non è bene, che è anormalità, che non è produttività. Viene trascurata come qualcosa che esce dalla logica del sistema sociale nel quale viviamo. Ed è appunto la logica del sistema che, per escludere la follia, apre le porte dei manicomi; tuttavia, siccome i manicomi sono una situazione di non umanità, di negazione dell’umano, è evidente che c’è qualcosa che non va.
E non va proprio il concetto scientifico di manicomio, che risponde a un’ideologia e si lega al problema della falsa coscienza, o meglio della falsa scienza, della scienza cioè funzionale alla logica che ci condiziona.
Se noi ci limitiamo a dire che il manicomio va male e costruiamo una situazione alternativa, noi ricicliamo l’ideologia dominante e creiamo un tipo di controllo sociale anziché dentro il manicomio, fuori di esso.
Una scelta però bisogna pur farla, perché una società o sa organizzarsi o non si regge.
Occorre vedere se questa società risponde ai bisogni dell’uomo o no; se risponde davvero ai bisogni della follia dell’uomo o piuttosto al bisogno di controllare la follia dell’uomo per conto di terzi, tramite gli psichiatri-tecnici che gestiscono questa situazione.
Insomma, il problema sta tutto nel rapporto tra follia e malattia e questa è la razionalizzazione di quella secondo un concetto sbagliato, non perché la malattia non esiste, ma perché è sbagliata la maniera di prendere in carico il bisogno dell’uomo e la sua sofferenza riguardo al problema della sragione.
Come scattano i meccanismi di esclusione del folle dal contesto sociale?
Ricorda “I poveri sono matti” di Zavattini? Ecco quel titolo corrisponde alla realtà. Intendiamoci, anche i ricchi sono matti, ma il modo di gestire la pazzia di un ricco è diverso da quello di gestire la pazzia del povero.
L’esclusione nasce dal fatto che l’organizzazione sociale non dà alla persona la possibilità di gestirsi in proprio, ma le impone di farsi gestire da altri in un gioco di mercificazione di sé, di oggettivazione di sé.
L’organizzazione sanitaria, infatti, ha bisogno di oggettivare l’altro perché deve curarlo. Così lo disumanizza, gli toglie ogni connotato di identità, lo trasforma in oggetto anonimo.
C’è una sorta di culto del pessimismo nella malattia mentale, per cui si ritiene che la follia sia qualcosa di originario, di biologicamente impossibile da modificare: da questo alla convinzione che il malato sia inservibile, e quindi da escludere, il passo è breve. Il malato di mente diventa, così, parte dell’emarginazione sociale, nel pieno rispetto dell’ideologia dominante e della falsa coscienza.
Lombroso studiava il fenomeno della pellagra e aveva scoperto che la pellagra è l’effetto di una cattiva alimentazione. Allora diceva: “Non possiamo dar da mangiare a tutti i pellagrosi, perché non ne abbiamo la possibilità. Perciò non ci rimane che curarli”.
Alla luce di questo aneddoto dovrebbe essere ancora più evidente come il malato di mente viene emarginato. Siccome, infatti, il problema non è curarlo, perché il concetto scientifico da cui si parte per curare la follia è sbagliato, ne consegue che il malato di mente viene custodito. E lo è perché rappresenta un pericolo e un danno.
Custodito, dunque, ed escluso: ecco come nasce un’emarginazione, che non è poi la sola. Larga parte della società paga perché alcuni stiano bene; e pagano proprio quelli che stanno male. Lo diceva anche Sartre: “Tre quarti dell’umanità paga perché un quarto possa vivere”.
Nel manicomio tradizionale come vengono trattati i malati di mente?
Vengono trattati come cose inutili e inutilizzabili. Non producono niente, non possono dare profitto. Il loro profitto è l’esclusione.
Nella nostra società non c’è niente che non debba avere un plusvalore. Il manicomio tradizionale racchiude la forza-malattia, il profitto-malattia. Il profitto sta nella scelta di dividere gli emarginati. L’emarginazione non la si può lasciare incontrollata; diverrebbe un elemento eversivo. Così la si smembra, si denominano le categorie, si dà il nome all’aggressore: l’omosessuale, il matto, la puttana, il carcerato, il drogato, ecc…
Per dominare l’emarginazione, bisogna scientificizzarla. Al controllo del matto è delegato lo psichiatra. Il medico nel manicomio, come altrove l’operatore sociale, lo psicologo, il professore, ecc … sono tutti tecnici del controllo capillare. Io non dico che non debbano esserci dei controlli. Se infatti l’organizzazione sociale è l’espressione della volontà di tutti, ben venga il controllo. È giusto che ci sia un controllo. Se invece l’organizzazione sociale è l’espressione della volontà di pochi, finisce che i più pagano per i pochi, i quali deliberano che si faccia sempre ciò che torna a loro vantaggio.
Non essendoci la risposta ai bisogni dei malati, il trattamento negli ospedali psichiatrici cosa vuole che sia? È violenza istituzionalizzata, è annientamento fisico di gente che è sudicia, violenta, pericolosa. Se invece c’è una struttura alternativa di gestione del manicomio, si constata che i malati in nulla sono diversi dagli altri uomini e che semmai hanno solo bisogno di una risposta alla propria sofferenza.
Occorre dunque una struttura alternativa di gestione del manicomio. Ma come farla funzionare? E quali obiettivi darle?
Dall’esperienza della comunità terapeutica si è scoperto, per esempio, che ognuno può dare un contributo terapeutico all’altro, vivendo insieme e reciprocamente stimolandosi. Perché questo avvenga, c’è bisogno di un progetto comune, cosa che la nostra organizzazione sociale non vuole. Ci fosse il progetto, sarebbe il crollo di tutta l’impalcatura. La logica dell’emarginazione poggia, infatti, sull’espropriazione del corpo dell’altro. Riappropriarsi del proprio corpo significa tornare a essere persone che vivono e lottano per la comune liberazione.
Si tratta allora di costruire delle tecniche di appropriazione tali che non lascino la gestione di tutti i bisogni nelle mani del solito tecnico, ma il tecnico sia l’epressione della volontà dei più; sia,come oggi si dice, un tecnico organico.
A questo punto, credo sia necessario qualche cenno sulla sua esperienza all’interno dell’ospedale psichiatrico e sul progetto di manicomio aperto.
Innanzitutto, non parlerei di mia esperienza, ma piuttosto di nostra esperienza. Io posso aver determinato, insieme con i miei collaboratori, il deterrente di una situazione che, se non la facevamo scoppiare noi, la faceva scoppiare qualcun altro. I tempi ormai sono maturi per una gestione alternativa del manicomio.
A Gorizia eravamo una decina di medici, poi c’erano gli infermieri, eppoi i malati. La situazione veniva ad essere molto comunitarizzata …
Ma la formula manicomio aperto che senso ha? E che situazione propone?
Intanto non c’è legge che imponga che il manicomio debba essere chiuso. Almeno la legge del 1904, ancora vigente, non lo dice. Ecco, dice che il direttore è preposto alle cure e alla custodia del malato. Strana cosa, contraddizione insanabile: il medico ha sempre preferito essere custode più che curatore. Cura vuol dire, infatti, partecipazione ai bisogni della sofferenza altrui e il medico non può partecipare, proprio perché gestisce il controllo per conto terzi. Il manicomio si gestisce nel senso dell’autoritarismo, nel senso cioè della divisione del lavoro. Ci sono più ruoli e uno controlla l’altro: allora, controllo = controllo. E non cura.
Ma, nel momento che, di fronte alla contraddizione, si sceglie di curare –cioè di partecipare e di essere col malato – piuttosto che di custodire, il discorso cambia completamente e cambia, quel che più conta, la pratica psichiatrica.
Ha presente il proverbio: ”tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”? ebbene, non è vero niente; è una grossa mistificazione. Per la persona che non ha, il dire diventa fare. Se c’è di mezzo il mare, è perché il padrone vuole che ci sia. Il mare è alienante. Invece, tra il dire il fare c’è di mezzo … la gente, nel momento che, all’interno del manicomio c’è una situazione assembleare, comunitaria, il dire è veramente il fare, perché, dicendo, si fa e si progetta; e si progetta in maniera comune, per fare.
I ruoli, naturalmente, si ribaltano all’interno di una situazione alternativa.
Certo, si ribaltano pur mantenendosi ruoli. C’è il direttore, il medico, l’infermiere, il malato, ma sono coinvolti in una trama di rapporti interpersonali completamente diversi.
Insomma, una volta scoperto il gioco, si rovescia tutto. Cioè, quando ci si rende conto che tutto ciò che si dice sulla psichiatria come razionalizzazione della follia è una falsa scienza, allora si ribalta ogni cosa e, se il manicomio è chiuso, lo si apre. Infatti, perché il manicomio è chiuso? È chiuso perché la psichiatria assicura che il malato è pericoloso per gli altri. Ma è vera questa affermazione? La nostra verifica, a Gorizia come a Trieste, ci ha portato a concludere che non è vera. Abbiamo scelto di partecipare e di fare col malato qualcosa insieme, in una situazione di continua responsabilizzazione comune.
La responsabilizzazione comune porta l’altro a prendere una responsabilità di sé e, quindi, a reinserirsi nell’ambito dal quale era stato scacciato.
Allora, la logica assembleare, la responsabilizzazione, la libera comunicazione all’interno dell’istituzione, la liberazione del malato sono momenti essenziali per denunciare l’ideologizzazione della scienza e la falsa scienza.
E per cominciare un discorso nuovo.
Sul suo lavoro continuano a piovere critiche e rilievi più o meno giustificati. Le capita soprattutto quando arriva, imprevisto, “l’incidente”: un malato che uccide, un altro che aggredisce. Cosa prova di fronte all’insuccesso?
L’”incidente” nasce nel momento in cui non c’è una risposta comunitaria al bisogno individuale e il malato avverte di essere escluso o di non essere più sostenuto.
Cosa provo? Certo, non dico:”Che cattivo! Ho fatto tanto per lui e lui guarda come m’ha ripagato”. Queste cose le può dire il parroco.
Se c’è una situazione del genere, importante è verificare perché è accaduto l’”incidente”: e io penso che l’”incidente” sia sempre il risultato di una situazione di contraddizione che non si può affrontare.
È singolare come, solo all’interno dell’istituto, un certo fatto previsto lo si chiama incidente, fuori lo si chiama morte. “Incidente”, cioè una cosa che non dovrebbe succedere che uno muoia, ma lì non c’è l’inchiesta.
L’inchiesta la si fa solo dove è norma che non debba succedere niente.
Oltre ai matti esiste un’altra categoria di “devianti”, di cui oggi si parla molto: i drogati. Qual è il suo parere sulla droga?
Il fenomeno della droga non è di oggi. Il problema c’è sempre stato, solo oggi è enfatizzato. La droga è diventato un fatto commerciale, così si naturalizza un cosa che non è vera.
La droga è vecchia come il mondo: la usavano i colonizzatori inglesi coi cinesi per dominarli; la si prendeva molto negli USA dopo la seconda guerra mondiale- un drogato ogni quattrocento persone. Ma allora non si enfatizzavano le cose. Il problema della droga – che è poi il problema degli psicofarmaci: ormai siamo drogati tutti, o autodrogati o eterodrogati – è una necessità industriale e si spiega con la logica del profitto.
Esiste l’angoscia delle nostre generazioni ed esiste l’esigenza di eliminarla. La droga permette di farlo e diventa il paradiso artificiale. È un problema di un’ampiezza incredibile, cui viene data una spiegazione non vera.
La droga è criminalità, si dice, e altre cose del genere. Invece la droga è il succedaneo di una risposta a un bisogno, risposta che non viene mai data.
Il meccanismo scatta così: esiste un bisogno; siccome al bisogno non viene data risposta, nasce il disagio; dal disagio non c’è via di uscita, per cui si fa un’ulteriore domanda di bisogni: o le persone si ammalano o le persone sono sane. E la risposta che si dà è sempre ideologica perché, nel momento che si dà una risposta di salute alle persone sane, queste pensano di essere sane, ma in realtà entrano nell’ideologia della salute, mentre le persone malate entrano nell’ideologia della malattia.
In mancanza della risposta al bisogno individuale o collettivo, c’è questa risposta preformata e c’è tutta un’organizzazione industriale che si muove in maniera autoritaria e oppressiva in questa situazione di bisogno, con l’obiettivo di dominare l’altro attraverso la droga.
Ma perché proprio i giovani sono i più inclini a drogarsi?
Perché i giovani hanno minori possibilità di concretizzare la propria situazione. La persona adulta, bene o male, è ormai impostata nella società: ha scelto determinate modalità di vita o una lotta politica o, comunque, un inserimento di norma nella realtà, mentre il giovane, se è di estrazione borghese, si trova in una situazione di parcheggio senza intravedere sbocchi attraverso i quali uscirne, se è invece di estrazione proletaria, non ha possibilità alcuna di progettarsi un futuro e realizzarlo.
Così, se lei chiede al drogato: ”Perché si droga?”, non si meravigli se si sente rispondere: “E perché non dovrei?”. È elementare la risposta del drogato.
(in Rivista Pedagogia Clinica-Pedagogisti Clinici, Edizioni Scientifiche ISFAR Firenze, n. 9/2004)