La nascita di un figlio disabile: l’impatto della famiglia

di Maria Mirella Gangeri

 

Ogni nuova vita che nasce dà inizio ad una sorta di viaggio evolutivo che conduce ogni individuo all’interno di un percorso di crescita.

Ogni coppia pensa di avere prima o poi un figlio. Sicuramente sogna un bambino sano, bello, come si è abituati generalmente a vedersi circondati e tutti i genitori si augurano, per i propri figli, il meglio possibile, soprattutto sperano che il loro futuro sia sereno e gratificante sia a livello personale e sociale, che lavorativo.

a volte invece la realtà sorpren- de, è tutta diversa da come ci si immagina. a volte quando quel bambino arriva è bellissimo, ma… non è sano.

Quando in una famiglia arriva la disabilità le aspettative rispetto al processo evolutivo dinamico fa- miliare “normale”, subiscono un grande scossone e gradualmente, attraverso un lungo percorso che noi definiamo “di accettazione”, occorre attivare quante più risorse possibili per far emergere ogni capacità che possa consentire di evitare l’avvio di un meccanismo di chiusura e di isolamento che porterebbe altrimenti alla frustrazione ed alla percezione di inadeguatezza sia della famiglia che della persona stessa.

 Per la famiglia la difficoltà che si crea è entrare nel processo di accettazione della disabilità e affrontare diverse fasi delle problematiche del figlio disabile, dalle tante visite mediche, alle terapie, alle eventuali operazioni, ecc. L’accettazione di un figlio disabile, il riconoscere di non aver messo al mondo una creatura perfetta, che non crescerà come tutti gli altri bambini, ma che do- vrà essere seguito e accudito in tutte le sue fasi di sviluppo, e forse per tutta la vita, diventa un peso considerevole da portare. resta comunque indiscutibile che la diagnosi, formulata in epoca neonatale o in periodi successivi, rappresenta un momento difficile, con ampie ripercussioni dal punto di vista emotivo determinate anche dalla modalità con cui avviene la prima comunicazione. Qualità e modalità della comunicazione ricoprono un ruolo chia- ve per la coppia genitoriale. È frequente nei racconti dei genitori il vissuto di abbandono nel momento della formulazione della diagnosi poiché alle famiglie, cui mancano le conoscenze per affrontare l’evento, viene trasmesso un generico messaggio ma poi vengono lasciate sole nella ricerca faticosa dell’intervento possibile.

Sarebbe auspicabile la strutturazione di una rete di intervento seria, pensata ad personam sul disabile, che fornisca informazione, assistenza, cura e protezione nel giusto modo e che aiuti e sostenga la famiglia.

In questa prospettiva, si attiverebbero le risorse emotive, cognitive e organizzative necessarie a “elaborare il lutto”.

La famiglia è la prima e fondamentale istituzione assistenziale; per la persona disabile grave la vita con i genitori può risultare la più efficace e la più completa delle soluzioni ai propri bisogni, ma sarebbe importante realizzare una presa in carico della famiglia contestualmente all’immissione in un circuito di riabilitazione.

Tutto questo ancora oggi non avviene e spesso la famiglia si ritrova da sola a guardarsi intorno per cercare soluzioni che sostengano il percorso di cui solo la prima tappa è l’accettazione.

Queste considerazioni emergono costantemente nei nostri incontri di auto-aiuto e a volte diventano riflessioni elaborate per iscritto tra le quali ne abbiamo scelta una in particolare che vorremmo riportare integralmente: “ogni tanto mi ritrovo a fare i conti con la mia esperienza di madre di una ragazza disabile che oggi ha 32 anni.

A 23 anni, alla seconda gravidanza, mi sono ritrovata a percorrere il lungo cammino dell’accettazione della mia nuova realtà.

Con grande determinazione, ma anche grazie a Dio, con grande serenità ho voluto sfidare me stessa. Certo non è stato e non è facile, in una società dove ancora siamo chiamati “meno fortunati” o peggio ancora “poveretti”, dove ancora non si riesce a capire la differenza fra servizio e assistenza, dove molti non hanno ancora capito che la solidarietà è condividere e non solo donare “un obolo” per quietare le coscienze disinformate.

La solidarietà, in questi termini, va benissimo per sostenere la ricerca scientifica, o sostenere iniziative di associazioni che lottano per il riconoscimento di alcuni diritti, ma la solidarietà vera è riuscire spontaneamente a pensare come un disabile e rallentare la corsa verso il “successo” (inteso a 360°) e con- tribuire piuttosto ad abbattere le barriere, soprattutto quelle mentali, che non garantiscono a tutti la stessa qualità di vita.

Ritornando al processo di accet- tazione, i sentimenti che hanno accompagnato me e la mia famiglia, che sono passati dalla vergogna, alla tristezza, alla rabbia, alla disperazione, alla sfiducia in me stessa e negli altri, hanno fortemente fatto emergere l’orgoglio (quello buono) e la dignità, con la consapevolezza che noi disabili (ognuno di noi lo è in maniera più o meno evidente) abbiamo diritto a vivere sereni, a lavorare, ad amare e ad essere felici.

La nostra vita non è un film o una soap-opera dove emerge solo qualche aspetto del vivere quotidiano, la nostra giornata comincia al mattino con la voglia di svolgere le normali attività, alzarsi, lavarsi, vestirsi, cucinare, uscire, fare la spesa, ac- compagnare tutti i figli nella loro crescita, andare a scuola, avere rapporti sociali, fare sport, andare a letto la sera senza avere incontrato durante il giorno le difficoltà che la cultura attuale ci impone. Insomma basterebbe un po’di sensibilità, vera solidarietà e servizi per vivere meglio. Tornando alla riflessione iniziale, cioè il “fare i conti con la mia esperienza”, direi che il bilancio è tutto sommato comunque positivo; mia figlia è una persona felice, solare, che ha voglia di stare con gli altri, che non teme il giudizio altrui, anzi ha molta auto-ironia, che apprezza le cose semplici, ma che sa riconoscere a pelle le persone sincere che le vogliono bene senza pietà e senza ipocrisia.

Io personalmente credo di essere cresciuta, di essere diventata “grande”: ho avuto una grande crescita spirituale, apprezzo le cose semplici, ma importanti che a volte mi sfuggivano, dò il giusto valore alle cose, ho sviluppato capacità autocritiche e mi impegno sperando di riuscirci, a confron- tarmi con gli altri, senza suscitare sentimenti di pietà o compassione. Se la comunità sociale e politica continua a credere di avere capito tutto e non si pone veramente all’ascolto rispetto alle nostre esigenze per migliorare, definitivamente, la qualità della vita delle nostre famiglie e dei nostri figli, l’interrogativo che quotidianamente ci tormenta difficilmente avrà risposta: cosa sarà di loro dopo di noi?

La serenità è sapere che, duran- te noi e dopo di noi, i figli possano vivere autonomamente una vita dignitosa, ricca di esperienze e di calore umano.

Un ambiente familiare dove si pos- sano condividere tutte le emozioni, è sicuramente il sogno di ogni ge- nitore e di tutti coloro che attraverso una serie di esperienze positive hanno elevato la propria consapevolezza a livelli molto alti”.

Il “dopo di noi” ritorna sempre, è un chiodo fisso, tanto più doloroso quanto più abbiamo la consapevolezza di vivere in una società che emargina i diversi, siano essi negri, extracomunitari, poveri.

Una società che pone come valore universale il danaro e quindi la competizione, la gara, la vittoria a tutti i costi.

Una società che va di corsa, dove ciò che non produce ricchezza viene scartato.

Una società che non offre lavoro, dove la disoccupazione cre- sce di ora in ora.

Una società triste dove è difficile vivere anche per i cosiddetti “normali”.

Davanti a questo sconfortato spettacolo, ti domandi come possa vivere il tuo figlio speciale che non conosce malizia, competizione, arrivismo, sete di potere, ecc….

Ti guardi intorno per cercare qualche struttura che lo possa accogliere quando non sarai più in grado di gestirlo e vedi – tranne che in rarissimi casi – il deserto e ti senti terribilmente solo e disperato.

La disperazione aumenta con il passare del tempo perché sei con- sapevole del fatto che tu invecchi, che senti venir meno la forza fisica, sei sempre più provato psico- logicamente e nello stesso tempo, tuo figlio cresce e con la sua crescita aumentano anche i suoi bisogni, le sue esigenze.

Tutto questo è reso più dramma- tico oggi, in Italia, in una società che è sempre più in crisi, più sorda ai bisogni dei più deboli. Davanti a questo scempio, l’unica via d’uscita è rappresentata dall’associazionismo, dal volontariato, dall’auto mutuo aiuto per vivere e condividere esperienze. È importante, infatti, vivere que- ste sensazioni insieme, condividendo con persone che ti capiscono perché le sentono e le vivono come te. alcuni problemi che da soli sembrano insormontabili, in- sieme con gli altri possono essere affrontati ed anche superati.

Condividere, in questo caso, segue la logica del noto proverbio: “l’unione fa la forza”.

(Presidente a.GE.DI. onlus relazione presentata al Convegno aNPEC reggio Calabria 2012; in Rivista Pedagogia Clinica-Pedagogisti Clinici, Edizioni Scientifiche ISFAR Firenze, n.29/2013)