L’attualità di un’acuta riflessione di Gianni Rodari sul tema dei compiti a casa apparsa sul quotidiano Il Paese Sera del 9.4.1972

Sono trascorsi cinquanta anni dall’articolo di Gianni Rodari e dalla sua riflessione ed ancora oggi si assiste allo stesso scenario. È frequente che la scuola richieda per i giorni di festa che gli allievi siano impegnati a fare i compiti a casa privandoli di momenti piacevoli e di tranquillità.

La serietà del problema ci obbliga ad un’attenzione educativa nel rispetto della persona e ci spinge ancora a tornare su un argomento che riteniamo debba far riflettere chi è impegnato educativamente per trovare una giustificata soluzione.

Marta Mani Pedagogista Clinico®

I COMPITI DI PASQUA

Bè sì, purtroppo, anche quest’anno non sono mancati gli insegnanti che alla vigilia delle brevi vacanze pasquali hanno dettato un bell’elenco di compiti e lezioni, evidentemente terrorizzati dall’idea che i ragazzi potessero divertirsi per qualche giorno senza pensieri, far Pasqua senza problemi e Pasquetta senza grammatica. Avvelenare così l’uovo di cioccolato a tanti innocenti mi sembra, sinceramente una cattiva azione. Lo dico all’amico professore: “Ti piacerebbe che il preside ti avesse assegnato per queste feste un lavoretto straordinario? “–“Vorrei vedere. Ma non c’entra. I ragazzi, se non si tengono in esercizio, dimenticano”. “Dimenticano quello che hanno imparato male, o che non hanno imparato mai”. “Ma se non gli si assegna qualche compito di loro iniziativa non fanno nulla…” – ” Scusa, ma proprio a questo scopo si danno delle vacanze: e si chiamano appunto vacanze, non periodo di “lavoro domestico”. Tempo libero, da usare come si vuole…”. – “Da buttar via…”. -“E perché no? A te non piace, ogni tanto buttar via un po’ di tempo?” – “Ma tu lo sai che ci sono dei ragazzi che gli chiedono, i compiti a casa, che li pretendono quasi, perché se non ne avessero da fare si annoierebbero?” – “Ce ne sarà qualcuno non lo nego. Ma permettimi di compiangerlo. Segno che ha poca immaginazione, se, mancandogli il compito, non sa che cosa fare”.

È dura da combattere l’abitudine dei compiti a casa. Durissima perché è perfettamente integrata e strutturata nel modo tradizionale di far scuola che tutto criticano, ma non tutti abbandonano. Nel momento in cui assegna i compiti a casa, la scuola in fondo si riconosce capace solo di suscitare “riflessi scolastici”. I ragazzi studiano per l’interrogazione, il voto, la pagella, la promozione. Se studiassero perché hanno un autentico interesse per ciò che studiano, se cioè avessero concepito autentici bisogni culturali, non ci sarebbe bisogno di imporre loro delle esercitazioni: studierebbero da soli, senza l’obbligo, per il loro piacere, così come per il loro piacere leggono un fumetto, giocano al pallone o ascoltano un disco. Ma la scuola si confessa incapace di suscitare quei bisogni culturali. Può contare solo sul meccanismo del giudizio. Perciò deve tenerne vivo il ricordo e l’efficacia anche durante le vacanze.

Ma è una polemica vecchia, condivisa dagli insegnanti che danno altri fondamenti al loro lavoro. E se vogliamo dire tutta la verità gli insegnanti che non danno compiti per casa, si espongono spesso alle critiche dei genitori. I quali, a loro volta, sono tranquilli solo quando vedono il ragazzo intento a quei compiti (che non servono a nulla) e se invece lo vedono giocare, o applicarsi ai suoi pallini (tutti ne hanno), subito lo rimproverano: “Ma i compiti, quando li fai?” Alle riunioni di genitori protestano con la maestra “signorina, li faccia lavorare di più!”. Se non protestassero, penserebbero di non fare il loro dovere.  Così, di equivoco in equivoco, le brutte abitudini tengono viva la tradizione. E tanti ragazzi, oggi, avranno una bella poesia da studiare a memoria, e naturalmente la odieranno, perché gli guasta la testa.

Conosco un poeta. Una volta capitò in casa di amici, i quali avevano un figlio alla scuola media. Era di domenica, il povero ragazzo stava appunto passando la domenica a mandare a memoria una poesia di quel poeta. Dire che ne fu offeso, è poco. Ne fu indignato. “Non studiare niente gridava, ti faccio io la giustificazione! Io sono un poeta, non un rovina domeniche!”

Chiunque abbia una qualche passione per la lettura e per la poesia conosce dei versi a memoria. Ma non sono quelli che ha dovuto studiare per la scuola: sono quelli che ha letto e riletto e che li ha amati, perché sono entrati a poco o tanto nella sua vita, e il tempo li ha fissati nella sua memoria, o l’amore. Non ci dovrebbe essere altro modo di imparare le poesie a memoria. Bambini piccolissimi recitano a memoria lunghe e complicatissime “contine”, che hanno imparato per l’uso che se ne fa nella società infantile, quando si deve fare la conta per un gioco. Nessuno li ha obbligati a imparare. Nessuno ha dato ne darà mai loro un voto-sette più, cinque meno-per il modo come le recitano. Le sanno, le usano e basta. Potrebbe essere così anche per le poesie dei grandi poeti, se noi riusciamo a farle entrare in una situazione viva, non meramente “scolastica” …  A quell’amico poeta, del resto il ragazzo aveva taciuto per mio consiglio il peggio; e cioè che sulla sua poesia aveva dovuto farci addirittura l’analisi del periodo, trovare le proposizioni principali, classificare la subordinate… Il poeta, a saperlo, avrebbe rischiato il collasso.

Ma per tornare ai compiti di Pasqua che fare?

Personalmente, se nascesse una questione del genere in famiglia, sarei pronto a firmare qualsiasi giustificazione. E credo che così facendo sarei dalla parte della legge. Io però mi regolo in altro modo, lasciando decidere all’interessato.  Li faccia se li vuole e, se non li vuole fare non li faccia. Non si può accettare che nascano liti in famiglia da una questione tanto poco drammatica, e anche tanto poco pedagogica.

Secondo la mia esperienza del resto, la maestra che, per abitudine o perché ci crede, assegna i compiti per le vacanze, alla ripresa delle lezioni si comporta come se non li avessero assegnati per nulla. Sono ben pochi, in una vita si possono contare su una mano sola, gli insegnanti che si spingono fino a controllare i quaderni. Proprio perché in fin dei conti sono degli insegnanti, non dei torturatori. Obbediscono (alla tradizione), ma non infieriscono.

Lasciano che i ragazzi si godano le loro giornate libere non diversamente da come fanno gli adulti. Non chiedono loro di essere più sgobboni di noi. Non ci deve preoccupare che essi saltino qualche compito, ma piuttosto, eventualmente, che essi non prendano mai in mano un libro di loro iniziativa: non un libro di scuola, ma uno dei nostri, il nostro giornale; cioè che in essi non ci sia una qualche curiosità culturale, un interesse per uno qualunque dei campi della realtà che la scienza, la letteratura, la filosofia hanno esplorati ed esplorano.

Ci deve preoccupare che non ci interrompano quando parliamo di politica, per dire la loro; che non abbiamo domande da farci, come facevano quando eravamo per loro la bibbia e l’enciclopedia; che non si mettano mai a “ricercare” qualcosa per loro piacere. Nel caso, poi, che ci capiti di dovere concepire preoccupazione del genere, non illudiamoci di risolverle con un predicozzo. I predicozzi servono come i compiti: cioè a niente.