L’incauto uso dei termini «psicosi» e «psicotico» in età infantile

di Marta Mani

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Con il termine «psicosi» si designano le malattie mentali che alterano profondamente la personalità, e viene definito «psicotico» il soggetto i cui rapporti con se stesso, con gli altri e col mondo esterno sono falsati e che vive in un universo irreale con prospettive profondamente deformate.

Lo psicotico è considerato da alcuni compromesso al punto tale da ritenere che sia pressoché impossibile aiutarlo a ritrovare disponibilità alla relazione, e così grave che la sua patologia non sarebbe neppure di competenza  pedagogica. In età infantile psicosi così tipiche e ben definite  come nell’età adulta sono assai rare e per questo non sono pochi coloro che utilizzano l’espressione «comportamento psicotico» per indicare tratti improntati a caratteristiche psicotiche, ma senza far riferimento ad una condizione nosografica ben definita. Un particolare abuso del termine «psicosi» si rileva però soprattutto in presenza di frequenti e significativi i sintomi di Autismo Infantile, definizione  che risale al 1950 e che nel corso degli anni, e più frequentemente negli ultimi tempi–essendo state identificate un numero crescente di cause e di differenti decorsi clinici–gli specialisti sono stati costretti a modificare in Disturbi di tipo Autistico. In realtà, quella che voleva essere considerata come una visione unitaria di un problema, era una questione molto più complessa e tale da mantenere vive le controversie, sia in merito alla comprensione delle cause di questi disturbi, sia al tipo di intervento più appropriato da condurre. Tali divisioni e conflittualità hanno generato confusione e allarme nei genitori che si trovano a dover valutate il senso delle proposte di aiuto per i loro figli.

Forme autistiche e similautistiche sono presenti in oltre centomila italiani e sono così poco conosciute che per definirle non è certo sufficiente appellarsi ad alcuni dei sintomi indicati nelle diverse scale di valutazione. Il decorso, la prognosi e le prospettive di cura non possono valutarsi sulla base di un’alterazione del comune comportamento. Alcuni soggetti possono presentare una certa povertà di fantasia, una carenza grave nei giochi simbolici e nella comprensione di alcuni aspetti del linguaggio, ma mentre  alcuni manifestano  gravi alterazioni delle modalità socio-affettive e difficoltà nel rapporto di reciprocità, altri si dimostrano affettuosi e disponibili alla relazione.

Alla constatazione di un comportamento alterato è quindi essenziale far seguire una seria indagine sulle cause che hanno alimentato e alimentano tali difficoltà, ma questo è l’aspetto più vertiginoso poiché rimane difficile far coniugare i principi di chi sottolinea che tutti i casi i Disturbi di tipo Autistico sono di origine organica (alterazioni neurologiche del cervello) o neurobiologica (alterazioni dei sistemi biochimici di neurotrasmissione) e di chi dichiara che il bambino viene concepito sano ed è l’ambiente intorno a lui a renderlo malato. In questo caso colpevole è ritenuta quasi sempre la madre, in quanto personaggio principale con cui il bambino interagisce. Ella viene definita madre-frigorifero, perché poco affettuosa verso il figlio, o viceversa troppo affettuosa, troppo comunicativa, troppo attenta agli altri fratelli e agli altri famigliari, e che quindi instaura un rapporto troppo o poco stimolante, e perciò è comunque colpevole. Tali orientamenti teorici garantiscono alla madre e a quanti sono coinvolti nel disagio del bambino soltanto una continua permanenza nel dubbio.

Essi sono da imputare a specialisti che non intendono effettuare una osservazione complessa, ma assolutamente necessaria se si vuole arrivare a conoscere la persona. Un serio e attento approfondimento diagnostico è peraltro imprescindibile se si considera che ci sono molti soggetti autistici per i cui disturbi non si riesce ancora ad identificare una specifica causa e che dimostrano notevoli differenze nel grado di abilità e nell’eventuale presenza di difficoltà associate, tra cui il ritardo mentale di varia gravità – in ben il 70-80% di loro –, convulsioni epilettiche in genere non gravi e facilmente curabili e malattie specifiche su base cromosomica, metabolica, dismorfica ecc. Alla luce di questo è facile comprendere quanto siano indispensabili degli esami di laboratorio per l’individuazione di regressione con EEG alterato, come nei casi di sindrome di Landau e Kleffner, per la rilevazione delle anomalie genetiche tipo il cromosoma X fragile, l’alterazione delle purine e le intolleranze alimentari simili a quelle del morbo celiaco, della fenilchetonuria, le infezioni virali comprese quelle da virus lenti.

Una osservazione corretta e complessa può aprire la strada a conoscenze insperate, andare oltre l’assioma che l’autismo è sempre frutto di una famiglia che non sa accettare né educare il figlio o che questi non parla e rifiuta il linguaggio per una scelta deliberata. Di una persona, specie se evitiamo di scotomizzarla fra psiche e soma, è opportuno conoscere ogni fenomeno psicologico ed ogni processo somatico. Essa è  come un testo che narra di sé ed ogni contenuto va analizzato; niente può essere trascurato e per questo dobbiamo avvalerci di ogni possibile ausilio conoscitivo. Sarebbe errato giungere a parziali conclusioni solo perché alcuni esperti negano la causa organica ed altri quella psichica, e sono incapaci di considerarne altre, tradendo così ciascuno la fiducia riposta in loro da madri, padri e famiglie. Costoro ricevono da ogni specialista la promessa di un trattamento che potrà migliorare l’evoluzione della persona in difficoltà, sia che venga prescritta una dieta particolare, o farmaci per i disturbi dell’umore, antiepilettici ecc. o che venga proposto un intervento psicoterapeutico alla madre, al figlio o alla famiglia, secondo le diverse forme di psicoterapie psicanalitiche, sistemiche, o la terapia famigliare ecc. ecc.

Appellativi classificatori e proposte di aiuto per lo psicotico

Se, come abbiamo appena evidenziato, l’incauto uso degli appellativi classificatori costituisce un grosso problema, non meno invasive sono le proposte di cura per lo psicotico. Alcune si configurano come terapie della parola per le quali le famiglie pagano milioni e milioni, e divengono tanto più care quanto più sono estese ai familiari che solo dopo molti anni si accorgono che i miglioramenti sono stati scarsi e che la terapia non è servita a nulla. A questi orientamenti di una certa cultura scientifica che riserva a sé il diritto-privilegio dell’accesso al misterioso linguaggio della follia, fanno seguito altri specialisti che, in uno spontaneo moto di prudenza, di fronte alla supposta fragilità del bambino autistico, hanno individuato la necessità della sua protezione per mezzo di un  ambiente isolato, lontano dai suoi familiari. A costoro si aggiungono quanti chiedono a quei genitori già colpevolizzati, l’impegno di risolvere il problema dando loro consigli e guide opportune nel rispetto di impostazioni etodinamiche e holding condotte con le tecniche del bonding. Ma anche questo  fai da te, non finisce qui. Si rimanga in Italia o si raggiungano, con viaggi della speranza, gli Stati Uniti, l’inadeguatezza non si dissolve.

  1. G., all’età di cinque anni e sei mesi, affetto da sindrome psicotica, si reca negli Stati Uniti, presso l’Autistic Spectrum Disorders, un centro per la cura dell’autismo. Privo di complicanze organiche e con «isole di capacità» nell’espressione elocutoria, l’autismo di questo bambino era tuttavia caratterizzato da un blocco nel comportamento esplorativo, una compromissione nel gioco simbolico e nello scambio sociale con incapacità di comprendere e di rispondere alle emozioni dell’altro. Nonostante un disagio così complesso, a seguito di una valutazione basata sui racconti dei genitori, su osservazioni del comportamento, sull’interazione diretta di gioco e un inventario di sviluppo infantile, gli specialisti americani sono giunti alla conclusione che W. appare piuttosto pronto «very bright». Poi dopo aver consigliato ai familiari di favorire la sua socializzazione tramite appuntamenti con i coetanei, «play dates» (cosa a cui già si provvedeva; per un tale suggerimento non c’era infatti bisogno di andare fin negli Stati Uniti), hanno descritto quali erano gli obiettivi specifici «su scala breve» che i genitori, impegnandosi in casa propria almeno 10 ore alla settimana, dovevano conseguire.

Nell’elenco, tra le tante cose assurde, considerata la gravità del soggetto, si legge:

  • risponderà a domande di «perché»
  • comprenderà concetti spaziali
  • userà aggettivi per descrivere persone e oggetti

[…]

  • potrà ricordarsi di cinque eventi quotidiani
  • comprenderà l’ordine sequenziale
  • riconoscerà i soldi

[…]

 –    starà su un piede solo per 10 secondi

  • correrà 50 metri in 12 secondi
  • salterà su di un piede solo per una distanza di 3 metri

[…]

  • disegnerà angoli retti «sharp corners»

[…]

  • di norma offrirà scuse per gli sbagli non intenzionali
  • avrà cura che i suoi compagni di gioco non si facciano del male
  • potrà vestirsi completamente […] (e andare a fare da solo una bella passeggiata, fino a raggiungere e schernire quanti lo avevano dichiarato psicotico – n.d.a.-).

Non intendiamo aggiungere niente, quanto si legge dice già abbastanza; si tratta tuttavia di una diagnosi inadeguata e una terapia cui devono provvedere i genitori.

Andando in California possiamo ottenere questi risultati e in Italia?

Nel nostro paese un soggetto nato nel 1995, all’età di sei anni, mentre frequenta la prima elementare, in seguito al suo atteggiamento iperattivo in alternanza a momenti di assenza, viene sottoposto ad esame elettroencefalografico, ma il tracciato non fa apprezzare reperti elettrografici di significato patologico. Egli viene comunque  diagnosticato come  affetto da psicosi infantile e vengono richiamate le nosografie dell’ICD 10 e dell’ F.84.0. Per questo bambino, che è giunto ormai alla fine della terza elementare, non è mai stata effettuata una diagnosi funzionale, però è stato obbligato a seguire un programma terapeutico riabilitativo che comportava la sua assenza da scuola per un giorno alla settimana, dalle 8 alle 16. In queste ore egli si recava in un istituto di terapia e riabilitazione, e trascorreva il tempo, dapprima stando in una stanza a vedere dei filmini, poi apparecchiando le tavole della mensa (un’esperienza che doveva aiutarlo a conquistare una maggiore autonomia) e nel pomeriggio giocando con i piccoli della scuola materna.

Il bambino ogni volta che doveva andare all’istituto mostrava grande sofferenza e tentava di opporsi. Dopo oltre sei mesi di disagi, il padre ha voluto vederci chiaro, e così si è presentato all’istituto, ha chiesto il programma di intervento previsto per il proprio figlio ed è venuto a conoscenza che in realtà non era mai esistito. Egli ha inoltre avuto modo di assistere a ciò che veniva imposto al bambino ed ha potuto di conseguenza decidere di non mandarlo più in quel centro. Ma mentre si è risolta la questione con la ASL, altrettanto non può dirsi per la scuola, dove il bambino, inserito senza diagnosi funzionale, si relazionava con maestri che riempivano di note i suoi quaderni, scrivendo: «Ti sei rifiutato di fare il dettato! », oppure «Lumacone!», e ancora: «Oggi non hai voluto fare niente!».

Per il piccolo si trattava di insegnanti che «gridano ad alta voce».

 

In attesa che qualcosa cambi

La persona che vive stati di grande disagio è in attesa che qualcosa cambi, quasi sicuramente non le interessa di essere classificata, non l’appaga il far parte di un quadro nosografico definito, non si sente gratificata perché è seguita da specialisti di una scuola cognitivista o una neocomportamentale, anziché di un’altra. Ella, le cui difficoltà sono molto varie, è in attesa di un aiuto multiformemente articolato da cui possano derivarle ampie prove di realtà.

Per aiutare questi soggetti è necessario avere chiaro che l’autismo porta in sé i medesimi elementi che concorrono a determinare un comportamento normale e chi ne è affetto ha una ricca dimensione emotiva ed effettiva, nonché capacità cognitive spesso assai significative. Ciò che occorre è una pratica coerente alla globalità dell’individuo, che si fonda  su una abilità e disponibilità del professionista capace di agire con un criterio eclettico le tante tecniche e metodologie che ha fatto proprie, allontanandosi dalla scheletricità delle preparazioni professionali  che si basano su criteri settoriali.

Lo specialista potrà rispondere alle necessità della persona definita psicotica se è capace di promuovere con disponibilità allo scambio valide relazioni. Ogni proposta perciò sarà affidata ad un opportuno impulso affettivo, premessa essenziale per salvaguardare il gioco simbolico, il linguaggio, lo scambio sociale e la capacità di comprendere e di rispondere alle emozioni.

La persona che ha una comunicazione difficoltosa, una capacità di relazione fragile e mutevole, chiede di poter conoscere, riconoscere ed accogliere, senza obblighi e prescrizioni; a noi spetta il compito di far apprendere senza insegnare, sviluppando i mezzi che essa possiede, o che privilegia, per comprendere, interagire ed esprimersi.

Chissà se dei professionisti riusciranno a prepararsi fino a divenire capaci, di aiutare la persona senza l’uso e a volte l’abuso dei termini «psicosi» e psicotico».

(in Rivista Pedagogia Clinica-Pedagogisti Clinici, Edizioni Scientifiche ISFAR Firenze, n. 7/2003)