di Gerardo Pistillo
La Pedagogia Clinica ha il compito di collocare al centro della sua riflessione teorico-pratica il tema del valore educativo e maieutico – “nutritivo”, potremmo dire in senso lato – del dialogo corporeo. Sempre di più si assiste oggi all’elaborazione di pratiche pedagogiche incentrate su un uso prevalente delle parole. È tuttavia proprio all’interno di determinate cornici teoriche e pratiche, in cui il ricorso alle parole risulta il più delle volte svitato dalle dinamiche corporee e dalla concreta materialità da cui esse originano, che sembra a tratti venir meno la necessaria consapevolezza rispetto agli effetti indesiderati che un uso smisurato delle stesse può provocare sul piano dell’elaborazione dei vissuti emotivi e affettivi nel processo di “formazione/de-formazione” di ogni essere umano. Una pedagogia che voglia dirsi, da un punto di vista pragmatico, “narrativa” – e, tuttavia, assolutamente “non verbo-centrica” – dovrebbe ripartire da una definizione complessa di comunicazione, così da ri-assumere lo stesso linguaggio verbale – quand’anche esso è tradotto, nella sua valenza semio-logica e grafo-logica, in scrittura – come parte integrante di quella espressività globale garantita dall’interazione dinamica, ogni volta ricercata dal corpo in situazione, tra una molteplicità di linguaggi inter-con-nessi. L’elemento che contraddistingue l’essere umano dagli altri esseri viventi, infatti, non è rappresentato semplicemente dalla facoltà di generare parole – le quali pure consentono, in qualche modo, di “toccare” l’altro – bensì dalla capacità di configurare, attraverso il necessario ricorso ad un sistema complesso – ad un “canestro” o “tes(su)to” – di linguaggi inter-retro-agenti, vere e proprie “autobiografie corporee” o “profili del sé”: finanche negli effetti a distanza che esse producono, le parole, infatti, non sono mai del tutto astraibili da un’espressività corporea che è sì retorica ma anche al contempo – volendo tener saldamente fede ai principi di base del metodo Reflecting® – tonematica e scenografica; strettamente correlata, nella trama di relazioni in atto, ad una più accurata disposizione degli elementi che contribuiscono a definire i vari con-testi di riferimento. L’intera semiologia corporea, come è evidente, non può non essere dunque concepita come il frutto dell’“essere-con” in-presenza, di una relazione in cui la condivisione del pathos non solo è definibile verbalmente ma concretamente vivibile nelle modalità del con-tatto diretto e della vicinanza. È in quest’ottica che la parola – troppo spesso arbitrariamente utilizzata come “farmaco” – ritorna ad essere, ri-pensata in profondità e quindi pesata, partorita e pronunciata in dinamica comunicazionale quale elemento costitutivo di un più ampio sistema segnico-meta-forico di per sé denso di significati. Ed è per l’appunto in tal senso che vocaboli, lemmi, ecc. assumono nel-loro-insieme il valore di “negativi”, in quanto è proprio la trama dei significati orditi e attraverso essi intessuti che consente di “sviluppare” e di “tracciare”, per contrasto, immagini più nitide di aspetti del sé “taciuti”. L’antropologo Ashley Montagu, già nella prima metà del Novecento, sottolineava l’importanza del contatto nel processo di formazione dell’essere umano. Lo scienziato inglese intendeva in verità promuovere un approccio somatopsichico, definito anche “centripeto”, volto a mettere in luce gli effetti positivi delle stimolazioni tattili nello sviluppo dei processi psichici e di apprendimento, intendendolo come complementare al tradizionale approccio psicosomatico, inaugurato da W. J. O’Donovan con l’opera Dermatological Neuroses (1927), finalizzato invece a rilevare l’influenza dei processi psichici sul corpo e sulla pelle e perciò definito “centrifugo”. Emblematici sono gli interrogativi formulati da Montagu in apertura all’opera intitolata Touching (1971): “quale influenza hanno sullo sviluppo dell’organismo i vari tipi di esperienza cutanea ai quali esso è soggetto, specialmente nella prima infanzia? […] un individuo della specie Homo sapiens deve sottostare, durante i primi stadi del suo sviluppo, a certi tipi di esperienza tattile per potersi sviluppare come essere umano sano? Se deve quali sono questi tipi di esperienza?” (ivi, pp. 16-17). Il messaggio profondo che è possibile cogliere nell’opera citata è che l’evoluzioneformazione dell’essere umano ha da sempre richiesto, ab imis, una cura-della-comunicazione quale fulcro generativo del fare-tessere-produrre-cura e dell’aver-cura-della-cura: accanto al ruolo giocato dal linguaggio verbale lo studioso sottolinea al contempo quello fondamentale ricoperto dai linguaggi tradizionalmente – e riduttivamente – definiti “paraverbale” e “non verbale” e in particolare delle stimolazioni tattili e cutanee, la cui articolazione, proprio come nel caso dello stesso linguaggio verbale, implica l’affinamento della personale capacità di porsi e di porgere, quindi di discernere e di vagliare, di scegliere e di dosare in maniera responsabile. Montagu aveva inoltre compreso il valore degli studi pionieristici condotti da Paul Bach-y-Rita e colleghi nel corso degli anni Sessanta relativamente al nesso stretto sussistente tra le varie forme di comunicazione aptica e stereognostica e la costituiva plasticità del sistema nervoso umano. E, d’altronde, è lungo la linea di pensiero che da André Leroi-Gourhan – passando per David McNeill, Michael A. Arbib e Stephen Jay Gould – conduce fino a Gregory Hickok e a Michael C. Corballis che si è da tempo voluto mettere in evidenza come l’evoluzione dell’espressività umana sia il frutto della girandola di transazioni comunicative verificatesi, conseguentemente all’assunzione di un’andatura bipede, tra la mano e la bocca. In quest’ottica, ritengo si possa affermare che la comparsa per esaptazione delle prime vocalizzazioni e poi, gradualmente, l’emergere del linguaggio verbale – effettivamente padroneggiato in età riproduttiva – abbiano consentito all’essere umano di “liberare” sempre di più le mani, rendendole in tal modo aduse e quindi più esperte, nel toccare e nel modellare, nell’accompagnare e nello sfiorare, nell’accarezzare e nel cullare. Per converso, è proprio a partire da una più spiccata flessibilità delle mani nell’articolazione di una grammatica gestuale composta di “parole tattili” e di “messaggi corporei” indispensabili per la crescita equilibrata della propria prole, che l’essere umano ha potuto costruire il complesso sistema segnico che gli ha permesso di superare, in virtù di una sempre più elevata attività di simbolizzazione, l’ambiguità costitutiva dell’esistenza. La pedagogia contemporanea non può oggi prescindere dall’applicazione di Metodi dialogico-corporei la cui validità in ambito clinico è suffragata da evidenze scientifiche. Tali metodi – il Touch Ball®, il Body Work®, il Trust System® e il Discover Project®, frutto del lavoro di sperimentazione e di ricerca condotto da Guido Pesci, Marta Mani e Simone Pesci –, consentono infatti di promuovere, nell’ambito di un intervento educativo che dovrà naturalmente essere eclettico e spiralizzato, il dia-logo autentico tra specialista e persona. Il Pedagogista Clinico® favorisce in primo luogo la distensione della persona su di un apposito lettino, per poi chinarsi e flettersi su di essa – gesto complesso che consente di rivitalizzare a mio avviso l’originaria matrice educativa della ϰλινιϰή τέχνη (“arte relativa a chi giace a letto”) – al fine di favorirne, attraverso foulages e altre forme di sollecitazione tattile ed eutonica, il rilassamento e la ri-flessione. È dunque per tale via, in relazione, che ogni essere umano comincia ad approntare e a definire le forme della propria auto-bio-grafia, la quale non può essere dispiegata esclusivamente a parole e perciò, come in molti casi accade, tradotta in un distillato “anonimo” di significati, bensì restituita nella sua profondità – compresa e puntualmente ri-definita sul piano ermeneutico – attraverso il ricorso al “nondetto” e al silenzio, al sistema complesso di gesti e di segni, di sguardi e di sospiri, di lacrime e di sorrisi. Si pensi, da questo punto di vista, all’atto del lasciar traccia di sé e del proprio corpo attraverso il disegno e le varie forme di espressività segnico-grafica, ma anche al racconto di sé realizzabile attraverso la creazione – garantita dal Metodo Tales of Sand® – di “forme di sabbia” cangianti e sfuggenti che la persona è sollecitata a produrre, a partire dall’uso consapevole di un’apposita sabbiera, necessariamente in relazione. Ritorna qui in auge l’assunto filosofico di Maurice Merleau-Ponty, il quale, in Les relations avec autrui chez l’enfant – opera contenente parte delle lezioni di Psychologie de l’enfant et la pédagogie tenute alla Sorbonne a partire dal 1949 –, definisce la presenza dell’altro come originariamente co-istitutiva dell’io: sin dall’infanzia, infatti, adulto e bambino rappresentano un “sistema diadico” in cui, “per auto-organizzazione”, entrambi co-ordinano lo svolgimento dell’esperienza in una “forma” dinamica. Prospettiva, magistralmente ripresa da Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela in Autopoiesis and Cognition (1980) e poi da Kenneth Kaye in The Mental and Social Life of Babies (1982), in base alla quale lo sviluppo epigenetico dell’essere umano risulta paragonabile ad una “danza” creatrice in cui geni e cultura si combinano in un fenotipo unico e irripetibile. È tuttavia già tra la prima e la seconda metà del Novecento che Moshè Feldenkrais enunciava il principio secondo cui attraverso il contatto i corpi giungono a formare in movimento una “nuova entità inter-corporea”, dando così vita ad un dia-logo/ meta-logo che consente ad ognuno, attraverso l’altro, di tracciare in abbozzo, e poi di enucleare e tradurre in lentezza, il profilo delle proprie potenzialità latenti e delle proprie disponibilità al cambiamento. Partendo da tale visione olistica, nel breve volume intitolato Il corpo in Pedagogia Clinica (2012), intendevo già mettere in luce, d’altronde, come la formazione di Homo sapiens, essere “dotato di una plasticità mentale che lo pre-dispone e lo abilita alla libera produzione di strumenti tecnici”, necessiti di essere concepita come un processo complesso durante il quale la “riorganizzazione delle mappe e delle reti neuronali, in risposta […] agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, non corrisponde a una semplice riorganizzazione del pensiero bensì a una riconfigurazione […] del corpo umano nella sua globalità” all’interno del proprio ambiente di vita. Processo antropo-pietico – autobio-logico e auto-genetico, si potrebbe anche dire – attraverso cui l’essere umano ciclicamente e continuamente rinnova, insieme al carattere neotenico e alla plasticità tipica dell’infanzia, la sua identità storica.