Movimento dei Pedagogisti Clinici: la parola alla donna

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All’interno del Movimento dei Pedagogisti Clinici le donne hanno avuto sempre un ruolo molto attivo e intonato sui temi dei movimenti per la liberazione, come il tema della maternità, della contraccezione, dell’aborto, della casa, della scuola, della fabbrica, sostenuto da una maturità socio-politica che si andava sempre consolidando.
La voce delle donne del Movimento fu nutrita da toni alti per uscire dall’imposto ruolo tradizionale di casalinga, un lavoro domestico non retribuito, limitato nel produrre esclusivamente valori d’uso e non di scambio, responsabile di ripercussioni negative sullo status socio-economico e de-nutrizionale l’incisività delle motivazioni e degli atteggiamenti culturali femminili.
Toni alti furono utilizzati anche per accusare il ”lavoro nero” a domicilio in cui le donne furono adibite a dispregio di tutte le leggi, a cucire, filare, incollare tomaie o giocattoli di plastica, un lavoro nero a cui venne fatto ricorso dopo che dal decennio ’60, anni delle trionfanti minigonne, del giovanilismo, delle più allargate libertà, era incominciato il regresso, periodo in cui un milione di donne vennero rinviate da fabbriche e uffici a far gli angeli del focolare e l’occupazione femminile tornò ad essere ai più bassi livelli, come nei primi anni del secolo.
Furono anni in cui le donne del Movimento dei Pedagogisti Clinici si batterono per richiedere con elaborazioni teoriche programmatiche una definita emancipazione della condizione femminile e indirizzarono le loro forze anche contro ogni disprezzo di quanti le consideravano fiori da cogliere, prede da circuire, oggetti su cui esercitare un incontrastato e indiscutibile dominio da quanti le volevano tenere lontane dalle responsabilità gerarchiche, e contro gli scienziati che con bilancino alla mano cercavano di dimostrare che il cervello femminile pesa meno di quello maschile e quindi vale meno. Con energia costante esse si sono battute contro chi non riconosceva le loro qualità professionali e chi ne limitava i diritti, chi le voleva cortigiane, tenere e perfette nutrici, spose esemplari o sante, comunque stupide che valgono meno del maschio, donne insomma: casa, chiesa, cucina; la donna 3C sulla quale incidevano la menomazione morale, fisica o intellettuale. Al Movimento il compito di battersi e vincere anche la lacerazione dovuta alla soggezione che molte donne vivevano nei confronti dei gruppi femministi intellettuali, per spiegare che pur non avendo letto i saggi di Marx o di Engels, ignorare Freud e Reich, non conoscere né Kate Millet né il manifesto delle Pantere rosa non toglieva loro il doversi sentire impegnate a battersi contro le trame di una rete che le imprigionava, le limitava e le umiliava. Questa elaborazione ha spinto le donne del Movimento dei Pedagogisti Clinici a rimeditare le teorie classiche sulla condizione della donna in modo da avere una conoscenza scientifica delle forme, degli ambiti e delle idee che procedendo dal ludismo del primo periodo, sostanziavano la formazione di una coscienza costruttiva ed efficace del presente.
La voce delle donne nel nostro Movimento non ha mai scivolato in elaborazioni distruttive dei maschi come i reali nemici da battere, anzi la liberazione femminile è stata vissuta non come un separatismo, ma come una ricerca di intese che ha ben trovato nei colleghi maschi anche utili acuti nel grido ”donne istruitevi”. Del resto le donne del Movimento erano laureate ed erano prova  di come  quel sapere e quel ruolo le aveva permesso ricchi riconoscimenti e una coscienza viva per opporsi con  strategie a lungo termine ad ogni eventuale mancato riconoscimento e rispetto.

Guido Pesci