Pedagogia Clinica e Psichiatria Esistenziale

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La Pedagogia Clinica ha maturato la sua espansione di pensiero e di azione nel momento in cui anche la Psichiatria con Ronald D. Laing si è mossa alla ricerca di soluzioni alternative fino a costruire una “psicopatologia dei processi interattivi”. Una psichiatria in polemica nei confronti della società moderna e di tutte le sue istituzioni, dalla scuola all’ospedale psichiatrico, dalla famiglia allo stato, sostenuta dal proposito di rendere meno profonda la divergenza tra il normale e il patologico. Laeng si scontra con l’inconveniente di una visione solo medica della malattia, racchiusa entro confini nosografici antiquati o convenzionali, e contro chi identifica la persona con la malattia astrattamente considerata inchiodato in un sistema che sostiene esclusivi processi morbosi.
La nuova psichiatria si rifiuta di stigmatizzare la persona malata con una etichetta di abominio, “nuova” perché cambia il metodo diagnostico spinta dalla necessità di  risalire dal paziente al nucleo familiare e al sistema sociale, per rendere decifrabile la situazione esistenziale del paziente e sfumare così la nozione tradizionale di malattia come regime alienato della vita individuale. Sostiene che la discriminazione etica tra malato e sano è inconsistente e inaccettabile, frutto di una cultura disfunzionale contro la quale ha inizio una battaglia generosa.
Sono gli anni in cui del pari si muove la Pedagogia Clinica che si batte accanitamente per impedire l’isolamento della persona handicappata (poi definita diversabile) nei centri e in istituti condotti con un’arretrata politica di sanitarizzazione legata ad una concezione patologico-terapeutica, in cui la patologia prospera, traumatizzando e atrofizzando sistematicamente il soggetto adattandolo al deficit. La Pedagogia Clinica considera indispensabile uscire da queste inadeguatezze per seguire una concezione moderna che richieda di modificare nella sostanza ogni processo di aiuto a favore dell’handicappato con conseguenze nella teoria e nella prassi, avversa a ogni azione medico-pedagogica indirizzata all’esclusivo perfezionamento di processi elementari, all’allenamento delle singole sensazioni o dei singoli movimenti, contraria a quei sistemi che inseguivano procedimenti ristretti all’elementarietà e che esaurivano l’educazione dell’handicappato con l’elaborazione di esercizi da far eseguire in modo automatico, inconsapevole e artificioso, da puro esecutore, riducendo la sua formazione a un atto esecutivo realizzato solo ai fini dell’addestramento di un semi-uomo.
La Pedagogia Clinica richiedeva che il campo di conoscenza teorica e di lavoro scientifico-pratico si basasse sul criterio di uno sviluppo di tutte le potenzialità di queste persone senza alcun intento di correggerne i disturbi e di intervenire con trattamenti terapeutici, bensì rivolto alla persona in una visione globale, e il Pedagogista Clinico® impegnato a creare un clima piacevole per svilupparne l’efficacia, soddisfarne il bisogno di stima di sé e i bisogni sociali, un aiuto innalzato su un corpus di stimoli per progetti emancipatori.

Guido Pesci