Vieni avanti dislessico!

di Guido Pesci

C:\Users\guido\Desktop\ARCHIVIO FOTOGRAFIC\ARCHIVIO FOTOGRAFICO 2\Immagini catalogo 2015-2016\dislessia.jpg

La viva esaltazione espressa dalla frase dei genitori al momento che il figlio va per la prima volta a scuola “Andrai a scuola! Imparerai a leggere, a scrivere e a far di conto!” e che rendeva bello e inebriante il momento, oggi è adombrata dall’intima preoccupazione che quello stesso figlio sia un “dislessico”.

Piero, Giovanna, Paolo… prenderanno, pur senza ricevere il battesimo, questo nuovo nome. Piero non sarà più Piero, ma un dislessico. Giovanna non sarà più la stessa Giovanna, ma una dislessica (piccola variazione al femminile). E Paolo? Speriamo abbia miglior sorte.

Un serio rischio per molti scolari, visto che il tasso percentuale che li distingue aumenta ogni mese, a conferma che viviamo in una società sempre più morbigena, ossessionata dal sottoporre a test i bambini nella scuola per selezionarli e classificarli a partire già dai quattro anni di età.

Al clima di angoscia dei genitori in attesa del verdetto, fa eco l’apprensione dei figli che, sottoposti a prova, attendono trepidanti la valutazione, interpreti della paura di essere riconosciuti “incompetenti” e definiti dis-lessici, divenire perciò corpi separati, speciali, diversi, come altri che conoscono o di cui sentono parlare. Sofferenze e traumi che si trapiantano nel processo maturativo con l’effetto di ritardare lo sviluppo delle funzioni autonome dell’Io e di strutturare una personalità fragile e non autentica.

La situazione, così inquietante, è stata resa possibile da specialisti relegati ad un criterio sanitarizzante e associati al sordo conformismo dell’opinione che il dislessico è un malato, adattati a utilizzare in ambito scolastico strumenti diagnostici quantizzanti per individuare i soggetti “affetti da dislessia” e collocarli in una nosografia-classificatoria. Una caccia al deficit, segnale di una obnebulazione del ricordo di una storia recente, quando con l’aiuto dei test, anche gli specialisti di ieri, usando coefficienti e gradi per misurare quantitativamente le possibilità degli scolari, ottennero il risultato di un massiccio incremento di classi differenziali che iniziarono a riempirsi fino ad affollarsi di bambini che per diversi motivi non avevano superato quei test.

È un chiaro segnale di una politica che non fa altro che rinnovare la prassi del dépistage che ritenevamo superata già negli anni Settanta, quando un bambino che non riusciva a tener il passo degli altri e si dimostrava improduttivo in una scuola concepita in senso produttivistico, si riteneva diverso. Una diagnosi che ha il sapore di voler identificare il difettoso e che, con l’abuso dell’attestazione di dislessico, torna a radicarsi in Italia, sostenuta da una politica i cui effetti lasciano interdetti ed offrono un giustificato formulario per l’elaborazione di sospetti.

 

Batterie per misurare e classificare

Test e batterie di test, criteri metrici e valutazionali contro cui, onorando lo studio dinamico del soggetto, si è battuto il Vygotskij, che sosteneva: “…occorre constatare la gravità della disarmonia di sviluppo aggravato dal deficit e di comprendere ogni momento della vita trascorsa e le esigenze di essere sociale. Si tratta di dover studiare il soggetto non solo come fenomeno organo-genetico, conoscere, ogni suo aspetto sociogenetico e psicogenetico. Significa cioè non studiare il deficit, ma il portatore di un certo deficit. […] Il soggetto il cui sviluppo è aggravato da un deficit è solo un soggetto sviluppato in modo diverso e sul quale non gravano solamente le cause organiche ma anche, ed in particolare la degradazione della posizione sociale, l’anormalità sociale, tanto che possiamo dire che non il deficit in se stesso decide le sorti della personalità, ma le sue conseguenze sociali, la sua realizzazione socio-psicologica” (Vygotskij, 1986, pp. 10-11).

Nonostante questi principi che dovrebbero prevalere in psicologia, tante sono le batterie utilizzate per sottoporre a prova, per definire e valutare l’efficienza. Metodi di graduazione, di proporzione, di misurazione, di scale e di cifre, fenomeni formulati in schemi più/meno, legati ad una concezione puramente aritmetica dei disturbi, variazioni quantitative basate su presupposti negativi da cui non è possibile strutturare idonee meto­dologie di intervento, se non con un’azione curativa. Misurazioni quantitative che si fermano a problemi di superficie, capaci solo di adattarsi al deficit, di convenire alle carenze del soggetto anziché battersi contro di esse.

Anche per il Vygotskij (1986) chi opera dei dépistage in base a sistemi di classificazione dei disordini secondo particolari “rubriche”, non può che procedere con interventi patologico-terapeutici adattati all’ortopedia psichica e alla cultura sensoriale, indirizzati solo al separatismo e al silenzio grottesco fino a perdere di vista il confine tra l’ammaestramento e la vera educazione, tra l’educazione e l’approccio zoologico dell’allievo. Quel trattamento che, sulla base della diagnosi, della presa in carico e del progetto riabilitativo, ha ritenute fino a ieri insostituibili le schede-aspirina, e che oggi a quelle mute schede aggiunge, con hardware e software, stimoli sensoriali visivi e uditivi, continuando ad obbligare gli allievi a sostare in una postazione differenziale, fermi davanti ad un monitor per ripetere esercizi. Un criterio separatista, connotabile come anti-pedagogia e da non accogliere tra i  principi della psicologia.

 

L’Osservazione

Un bambino osservato dal punto di vista qualitativo reclama attenzione  sulla catena di metamorfosi e di proprietà che lo distinguono, alle evoluzioni che lo rendono una persona complessa: perciò chiede che vengano conosciute le sue potenzialità, le abilità e le disponibilità; uno studio dinamico, non limitato alla constatazione della gravità del deficit, ma che includa l’analisi dei processi compensatori-sostitutivi, integrativi e correttivi dello sviluppo e del comportamento, di prendere in considerazione ogni sua esigenza di essere sociale. Una osservazione condotta in costanti e varie occasioni di interazione in uno scambio simpatetico con l’allievo per una osservazione sistematica, perseguita durante l’iter educativo, per connotare distintamente gli effetti ritardanti o ostacolanti il processo maturativo e ogni aspetto caratterizzante le forme di comportamento e di apprendimento (Pesci, 2004).

Se si vuole che l’educazione non soggiaccia a una pericolosa azione generalizzatrice o sia suffragio di criteri classificatori, è all’insegnante che, rispetto a ogni altro specialista ha il vantaggio incontestabile di stare a contatto con gli allievi e li assiste in tante le loro manifestazioni di vita, deve essere riconosciuto il ruolo professionale per condurre una osservazione e procedere alle scelte di strategie educative e integrative per aiutarli ad apprendere. Un insegnante che abbia sviluppato abilità ad osservare per comprendere l’eterogeneità dei percorsi di vita dell’allievo e sappia apprendere dalla polisimmetria causale-dinamica e dalle sfaccettature prismatiche della sua personalità; che non indugi sui limiti, ma muova verso le radici dei disagi, sia pratico a svolgere un’analisi della sua volontà, del suo aspetto emotivo, della sua fantasia e del suo carattere.

 

Una scuola in cui gli allievi imparino a leggere

L’insegnante sa che ciascun allievo si presenta con una propria individualità, un personale ritmo di crescita, differenziate intelligenze, carattere e temperamento, modi diversi di essere e di rappresentarsi, e lo accoglie per proseguire, con un conseguente orientamento metodologico didattico, l’azione educativa. Egli è consapevole che l’operare senza tener conto dei processi di sviluppo intellettivo-affettivo degli scolari, delle loro possibilità e funzioni in via di formazione, significherebbe agire senza il giusto rispetto verso l’uomo che viene formandosi, ed è obbligato a trovare per ogni allievo stimoli motivazionali ad apprendere che rispettino le funzioni deputate alla comprensione e all’assimilazione per raggiungere il grado di evoluzione e di maturazione necessario.

L’insegnante sa bene che il bambino potrà dare risposte idonee negli apprendimenti quando avrà affinate le percezioni cinestetiche e la loro associazione con i dati visivi e sviluppata la maturazione nervosa, tonico-emozionale e affettiva; né gli sfugge che la tappa della discriminazione percettiva si risolve da 3 a 7 anni, periodo transitorio e di preparazione alla vita in cui vi è un’evoluzione parallela e coordinata della percezione dello spazio e della percezione del corpo proprio, e sa anche che se le tappe hanno una tale forbice è perché non tutti i soggetti all’età di quattro, cinque o sei anni, sono pronti ad apprendere le materie curriculari. Se preparato, riconoscerà gli ostacoli e sarà capace di rintracciare i tortuosi itinerari, per agire in modo corretto e produttivo, per fornire le forze, le tendenze, le spinte a favorire reazioni positive, superare o integrare le abilità, gli interessi e le motivazioni. Percorsi educativi e didattici idonei a sostenere, sollecitare, rafforzare, sviluppare e soddisfare le esigenze dell’allievo, indirizzare utili interventi preventivi e, nel caso se ne presenti la necessità, precoci, tempestive azioni educative.

Una pratica educativa che non esclude e differenzia i più deboli, sostanziata da una molteplicità di esperienze capaci rendere l’apprendimento del leggere un atto educativo rispettoso dei ritmi di apprendimento e dei bisogni educativi dell’allievo e non un puro e semplice mezzo tecnico utilitaristico, esposta a stimoli di compensa­zione infinitamente vari ed estremamente originali per lo sviluppo della creatività, percorsi  per generare tendenze psichiche, desideri, fantasie e sogni.

Per questo l’obbligo dell’insegnante con i “lenti ad apprendere” è garantire un insegnamento individualizzato, impegnandosi nel fare emergere in ogni piccolo il desiderio di agire correttamente, trovare gratificazione e giusta motivazione, e riuscire con successo. Un insegnamento individualizzato che evidentemente qualcuno, che non è insegnante, confonde con il sottoporre l’allievo ad un  insegnamento separato, isolato in un microcosmo, conformato e adattato al deficit, sottraendogli esperienze comuni e le opportunità imitative che lo arricchiscono fino a diventare capacità creative.

Una educazione in preordino alla lettura, muovendosi in uno spazio tridimensionale per dare enfasi al piacere e maggior opportunità di codifica nella conoscenza. Esperienze con cui assaporare il valore dell’immagine e della parola, della “fonetica impressiva” come incentivo fonetico-letterale, dei segni immaginifici e delle unità significative universali figurate, la visualizzazione dell’astratto, l’educazione figurativa, l’organicità musicale nella formazione del rigo ecc. Un insegnamento pedagogico con cui incentivare l’interesse verso il “saper-vedere”, inteso a mutare il gioco visivo adattando l’immagine o l’oggetto a concomitanti processi percettivi, e il “fare-dire”, unità in cui il prius del dire stia nel sentire attuoso, un nesso tra realtà e parola, importante fulcro di una evoluzione.

Crescite esperienziali in atelier assai diverse rispetto ad una valenza biologico-energetica, alla staticità che rende gli allievi inflacciditi, raccolte esplorando esposizioni cinestetiche capaci di raccogliere immagini figurative che si espandono in espressioni fonetiche e in parole, contenuti semantici e vibranti assonanze empatiche.

Gli insegnanti preparati a rispondere alle esigenze degli allievi in difficoltà della lettura assai bene conoscono come operare esperienze di gruppo per una definizione di sé-spazio, integrate da altre che obbediscono al simbolismo spaziale, perfezionate dalle sollecitazioni musicali, i ritmi e la durata. Essi ben sanno come integrare il pensiero di chi si limita a sostenere che “la linea conduce lo sguardo”, l’allievo per mezzo di una specializzazione dell’inseguimento dell’occhio con testi scritti su parete, dove può venire tradotta anche l’impulsività polivalente della forma del cerchio, il dinamismo del triangolo, del quadrato, del rettangolo, del Punto Egoico e  di ogni Codice Gestuale Corporeo, radici e strutture interiori storicizzate (Pesci e Mani, 2001). Qualità di esperienze percettive che si plasmano in espressioni organizzativo-gestuali, rese visibili  dai tracciati proiettati, azioni che divengono ricordo.

L’insegnamento pedagogico clinico ben conosce anche le vie per incentivare abilità mnestiche, con l’ausilio, tra l’altro, di immagini mentali con coloritura emotiva, di “forme informi”, e come sollecitare interessi rivolti alla linea, forma primigenia dello sviluppo, con i suoi caratteri alfabetici significanti, immagine dei significati, quel muoversi passo, passo verso…, come nel camminare, procedendo da un termine all’altro che gli succede. Né sfugge il disagio presente negli allievi con inadeguatezza percettiva, quando vengono posti davanti a tante lettere impresse sull’informe anonimità del foglio, avvolti da un folto ordito di simboli, per questi seguono importanti soluzioni con scritte prospettizzate su pareti attrezzate che, nell’assumere un più intenso sfondo sensorio, stimolano un maggior organico contatto percettivo e che logograficamente esposte in un campo così esteso per essere tradotte richiedono di “camminare sul rigo”, di sviluppare un ampio inseguimento dell’occhio per accompagnare l’ordito delle figurazioni o delle sagome, fino a tradurre il significato narrativo, dichiarativo, descrittivo delle parole contestuali in espressioni gestuali, in costruzioni simboliche con il corpo, abbinate ad un variare tonematico, al ritmo e al canto (Pesci e Pesci, 2006).

L’ampiezza del loro saper fare nel dare tanto caro a Canevaro, continua in parole e frasi esposte in un campo tridimensionale la cui lettura può essere eseguita comminando, assumendo posture e orientamenti diversi, come porsi di fianco al te­sto, seduti a terra o sdraiati, in continuo accomodamento rispetto alla fonte scrittoria, stimoli creativi per incentivare il piacere,  sviluppare l’interesse e la motivazione, vincere ogni difficoltà e disagio.

Una macrolettura che verrà via via ad essere ridotta nella grandezza per permettere all’allievo di affinare sempre più le abilità de­co­dificatorie di simboli alfabetici di grandezza normale, ed incentivare le disponibilità nel leggere rispettando una personale visività del ritmo figurativo, diverse posturalità, attenzioni educative vigili al rispetto della formazione integrale della personalità (Pesci e De Alberti, 2004).

Tante occasioni per un intervento di prevenzione e una azione educativa autentica e rispettosa, orientata solo agli interessi della persona-allievo, che contempli un’applicazione pratica e sistematica di diverse strategie valide  per riempire l’Io di soddisfazione e di entusiasmo.

Attività ricreativo-demiurgiche che possono essere condotte nella scuola in situazioni di piacere e di scambio in dinamica fra le varie componenti grippali, luogo in cui compito degli insegnanti è quello di “insegnare ad apprendere” a tutti gli allievi che vi partecipano, specie quelli che manifestano delle difficoltà, esigenze pedagogiche soddisfatte in opposizione ai principi della settorialità degli interventi, senza che gli allievi (i dislessici) siano costretti a dover sostare davanti al computer con compensativi hardware e software, riflesso di una cultura sensoriale, referenziati da una distratta politica succube del principio che la terapia debba avere nella scuola il diritto di cittadinanza.

Le esemplificazioni di ciò che è capace di realizzare un insegnante preparato, paladino dell’integrazione, in quotidiana sofferenza contro il conservatorismo e ogni pseudocultura asservita, in opposizione alla scuola emarginante, e  in rivolta contro ogni restaurazione, riteniamo non sia comparabile. È l’esempio un saper rispondere con “qualità” ad una diagnosi “qualitativa”, linea guida per una scuola che non trascura le esperienze di cooperazione e di integrazione sociale, idonee per aiutare gli allievi in difficoltà a muovere verso un futuro di speranza.

Questo suggerisce che sia la scuola primaria ad intervenire in aiuto a chi è ostacolato ad apprendere che, certo, non è un malato e che sia resa obbligatoria la scuola dell’infanzia per attuare precocemente una prevenzione senza esclusioni. Nell’attesa, ci sentiamo di sollecitare tutti al rispetto della persona.

(in Rivista Nuovi Orizzonti 2/2010)